Che cosa ha consentito all’umanità di gestire con successo, a ogni latitudine, il clima? La sua stabilità. Tutti vorrebbero vivere a San Diego per la natura e il clima, ma molti hanno imparato a vivere in Alaska o nel Sahara. Qual è il principale problema oggi?
Il contrario della stabilità, vale a dire il cambiamento climatico.
Tale cambiamento può essere benefico per qualcuno e dannoso per qualcun altro, e in quest’ultimo caso è necessario determinare il massimo danno potenziale.
Dal punto di vista del corporate real estate, il problema di adattamento a un ambiente sensibilmente diverso non si limita al controllo della temperatura, ma comprende l’impatto delle variazioni nella domanda dei clienti a loro volta guidati dal cambiamento climatico, oltre ai danni potenziali legati a eventi estremi che, nel nuovo scenario, si possono verificare con frequenza molto superiore rispetto al passato.
Ma come individuare una metodologia che consenta di quantificare il danno potenziale?
Il settore finanziario ha sviluppato sin dagli anni Ottanta una metodologia per la determinazione del rischio, nota come Value at Risk (VaR), consistente nello stimare la distribuzione di probabilità del valore degli asset di interesse.
Nel 2019 il United Nations Environmental Program Finance Initiative ha proposto una metodologia innovativa per calcolare il rischio di perdita di valore delle corporate e delle istituzioni finanziarie causato dal cambiamento climatico, considerando sia i rischi di transizione (il costo per l’attività economica di politiche finalizzate a ridurre le emissioni di CO2), sia i rischi fisici (i danni causati dall’aumento del numero e dell’intensità degli eventi climatici sugli agenti economici).
La nostra proposta è invece quella di presentare una metodologia di calcolo del Climate Value at Risk (CVaR) per quantificare elementi di rischio legati al cambiamento climatico su asset di real estate. La metrica risultante è denominata Real Estate Climate Value at Risk (RECVaR).
Per meglio chiarire questo passaggio, prendiamo come esempio un progetto immobiliare per un hotel di lusso di circa 80 camere complessive, disposto su 4.250 m2 di superficie, dove si ipotizza un prezzo di vendita a camera di 300 euro al giorno e un tasso di occupazione che dal 65 per cento nel primo anno e del 70 per cento nel secondo anno, salendo poi a regime (dal terzo anno di attività) all’80 per cento.
Per quanto riguarda i costi legati al cambiamento climatico, il rischio di transizione viene stimato ipotizzando che l’hotel debba pagare per le emissioni di CO2 un costo legato al prezzo di mercato dei diritti di emissione, un prezzo che languiva sotto ai 5 euro per tonnellata sino al 2017 ma poi salito sino a 90 euro all’inizio del 2022 e lievemente in calo a 80 euro dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina.
Le tonnellate di emissioni del progetto immobiliare considerato vengono stimate dai kWh di energia necessari per l’utilizzo della struttura alberghiera e dai grammi di CO2 emessi a causa dell’uso di energia.
Nello scenario più probabile si stima un utilizzo di energia pari a 301 kWh per m2 all’anno.
L’emissione di CO2 in relazione all’utilizzo di energia viene stimato, sulla base dei dati forniti da European Environmental Energy per l’Italia, a un valore di 248 grammi per unità di kWh.
Sulla base di tale ipotesi, la struttura analizzata presenta un ammontare annuo di emissioni pari a 74,6 Kg di CO2 al m2 all’anno.
Abbiamo simulato l’intero business plan del progetto considerando vari elementi di rischio legati alle variabili economiche, all’efficientamento energetico e all’impatto dell’ambiente esterno dal punto di vista dei già citati rischi fisici e di transizione.
I risultati ottenuti mostrano che il cambiamento climatico può avere un impatto sensibile sul valore dell’asset considerato: il VAN si riduce del 60 per cento e il TIR passa dall’8,63 per cento a 7,14 per cento.
Il worst case scenario che ha luogo con l’1 per cento di probabilità, che in assenza di rischio climatico è pari a 2.415.928 euro, diventa pari a 290.914.
L’extra perdita di 2.125.014 corrisponde al 57 per cento del valore iniziale ed è dovuta all’impatto del cambiamento climatico.
I risultati sono solo esemplificativi ma illustrano la potenza della metodologia, utilizzabile sia per gli asset owner sia per i finanziatori degli asset, che devono inserire il rischio climatico tra le altre variabili per la stima della perdita massima di portafoglio.
Gli operatori economici devono prendere decisioni di investimento di lungo periodo bilanciando in maniera razionale le prospettive di valore economico e gli elementi di rischio.
La definizione rilevante di lungo periodo non può prescindere dal cambiamento climatico, principale rischio non diversificabile potenzialmente in grado di influenzare qualsiasi tipo di attività.
È evidente che il rischio climatico si sovrappone e interagisce con i normali rischi operativi e finanziari di business ed è quindi di fondamentale importanza disporre di una metodologia in grado di incorporare tutte le fonti di rischio. La possibilità di attribuire a specifici elementi climatici la riduzione del valore economico e del tasso interno di rendimento contribuisce ulteriormente a rendere la metodologia semplice e di facile utilizzo e interpretazione.
Quanto detto non vale solo per gli imprenditori ma anche per chi eroga i finanziamenti a titolo di credito e di equity, generalmente intermediari finanziari che da oltre vent’anni usano i modelli di Value at Risk per la quantificazione dei rischi di mercato, di credito, operativi e altri.
Quanto proposto rappresenta una generalizzazione del Value at Risk, e dovrebbe quindi essere facilmente accolto nella modellistica già implementata.
È purtroppo facile prevedere che nei prossimi anni calcoli di questo tipo diventeranno standard ma sono sin da subito necessari per tutti gli operatori che devono gestire situazioni rischiose.
Fonte: SDA Bocconi
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